
di Silvio Rossi
In medicina si studia il funzionamento del corpo umano sano. Poi si studiano la comparsa, le manifestazioni, le cause delle malattie, che sono malfunzionamenti del corpo umano. Quindi si cerca di guarire le malattie per ripristinare – meglio che sia possibile – il buon funzionamento del corpo.
In Psicologia è tutto molto più complicato. Sappiamo che l’oggetto della disciplina non è il corpo, ovviamente. Ma l’alternativa qual è, la psiche? La mente? L’anima? Il comportamento? La personalità? E che cosa si intende per psiche, mente, anima, comportamento, personalità? Ognuno di questi termini ha definizioni che cambiano tra scuole e professionisti diversi, non c’è un accordo preciso. Non essendoci sull’oggetto di studio, non c’è ovviamente nemmeno sull’idea di psiche sana, mente sana, ecc. Di conseguenza, è piuttosto confuso quello che s’intende per “salute”, “normalità”, “malattia“. E ci si preclude la possibilità di dare una definizione di questi concetti che sia assoluta.
La normalità viene relativizzata, asserendo che in ogni epoca, cultura, sensibilità cambia l’idea di ciò che è normale. La psicologia non sembra molto disponibile a proporre una descrizione universale di come funziona una persona in buone condizioni di salute mentale. Nella nostra società occidentale, che viene definita “globalizzata“, “multiculturale“, “fluida“, ma soprattutto caratterizzata da un individualismo autoreferenziale, risulta ancor più difficile stabilire in modo univoco l’oggetto della psicologia e il corretto funzionamento di questo oggetto. Qualsiasi comportamento può essere considerato una variante legittima della “normalità“, qualsiasi azione può essere letta come manifestazione della libertà umana di autodeterminarsi. Con questi presupposti – che è lecito chiamare rassegnati – la Psicologia moderna contribuisce in maniera significativa all’abbattimento di ogni criterio di valutazione, giudizio, e della stessa possibilità di definire il disagio psichico, se non con criteri che siano puramente convenzionali. Quindi mutevoli, ridefinibili, opinabili.
Da qui, ad esempio, le varie versioni del DSM, il manuale che raccoglie l’elenco e la descrizione dei vari disturbi mentali. Passando dalla versione uno a quella attuale (la cinque) in pochi anni sono stati inserite nel DSM nuove voci, altre ne sono state cancellate. Ciò che pochi anni fa era una perversione ora è una possibilità, ciò che era un fallimento educativo ora invece è diventata una patologia. E conseguentemente farmaci e terapie vanno e vengono: per ogni nuova malattia c’è una nuova medicina, e ogni ex malattia ha un’ideologia che la giustifica.
In un sistema relativista che ha abdicato alla speranza di affidarsi a criteri oggettivi ci si è accordati sull’unica soluzione possibile per capire se ci si trova di fronte ad un disturbo: 1. Sta male chi sta male, ovvero si diagnostica come sofferente di un disturbo psichico la persona che soffre di un malessere non riconducibile ad una malattia del corpo. 2. Sta male chi, pur non percependosi sofferente, risulta disadattato, deviante, pericoloso per gli altri o per sé stesso in riferimento allo stare in società e alle regole comunitarie. Che però cambiano col tempo.
Per inciso, notiamo che l’idea di essere pericoloso “per sé stesso” illustra una notevole contraddizione: se assumo che il rischio di farsi del male sia un elemento di attenzione clinica ammetto che il valore della persona vada comunque tutelato, anche ignorando la volontà della persona stessa. Ma quest’idea viene poi con leggerezza negata in altri ambiti dove invece si riconosce il diritto di una persona di togliersi o togliere la vita. Ma queste sono le non-sorprese di una società che ha abbandonato il pensiero basato sui principi logici per adottare una condizione di relativismo assoluto, rinunciando alla ricerca della verità.

neuroni in conflitto…
…Ti salvo perché la tua vita vale, ti lascio morire perché il tuo desiderio vale
Allora non c’è via di uscita? In effetti seguendo il pensiero corrente non siamo in condizione di affermare con certezza se una persona abbia disturbi psichici se non utilizzando delle convenzioni. Ma se non abbiamo un concetto preciso di persona, e non abbiamo un concetto preciso di psiche, non abbiamo – come detto – nemmeno un concetto preciso di cosa si intenda per una psiche sana, allora per essere coerenti potremmo (psicologi e psichiatri) fare le valige e trovarci un altro lavoro.
Ma al di là del relativismo c’è la realtà. Io possono anche sostenere che questa porta sia frutto di immaginazione, però se non la apro corro il rischio di dare una bella testata, e se non la chiudo c’è il rischio che entrino i ladri. La sofferenza psichica – come la porta – esiste, e una sorta di idea di normalità tutti l’abbiamo dentro di noi. In maniera intuitiva e abbozzata forse, ma riesco a cogliere se io o un altro abbiamo “Qualcosa che non va” al di là di diagnosi e vari distinguo. Chiamiamola anche psicologia del senso comune, ma pur faticando a costruire dei criteri affidabili è necessario recuperare un’oggettività che funga da guida per non disperdersi in un mondo caotico in cui salta ogni distinzione e ognuno è regola per sé stesso.
Però la soluzione al caos derivato dall’abbandono della filosofia non è la convenzione, cioè la pretesa che un gruppo di persone (detentori di un potere auto-attribuito) si mettano d’accordo per decidere per tutti cosa vada chiamata disturbo e cosa variante normale. La soluzione è ben altra: è il recupero della metafisica.
La metafisica è quella branca della filosofia che si occupa degli aspetti più autentici e fondamentali della realtà. Aristotele la definiva “Scienza dell’essere in quanto essere“. La metafisica concentra la propria attenzione su ciò che considera stabile, necessario, assoluto, per cercare di cogliere le strutture fondamentali dell’essere. per superare gli elementi instabili, mutevoli, e accidentali dei fenomeni. Il senso della metafisica sta nella ricerca di una risposta alla domanda fondamentale “Perché l’essere, piuttosto che il nulla?” (“Perché qualcosa esiste?“).
La Psicologia senza un respiro metafisico rischia di non poter proporre più una risposta, se non una semplice pacificazione con il proprio soggettivismo autoreferenziale, autenticato “dallo specialista” come origine della propria verità e come unica risorsa disponibile (= “Se stai male è perché non sai stare bene. Se stai male è perché leggi la tua condizione come male, cambia lettura“). Non è una battuta, ma l’esito finale di un percorso di abbandono della metafisica, per cui non si è più in grado di offrire nulla se non una chiusura nella tragica solitudine della propria individualità. “Solipsismo”, che come leggiamo sull’Oxford Dictionary è “L’atteggiamento filosofico secondo il quale il soggetto pensante non può affermare altro che la propria individuale esistenza in quanto ogni altra realtà si risolve nel suo pensiero“.
La Psicologia non nasce a Lipsia nel 1879, con il primo laboratorio di studio del comportamento umano da parte di Wundt. In realtà la Psicologia è strettamente legata con la filosofia, e ha le sue origini ben più lontane, sulle sponde dell’Egeo. Tre o quattro secoli prima di Cristo i filosofi greci già si interrogano sull’uomo, sulla sua finalità, su cosa significa la piena realizzazione umana. Sulla pratica di quelle virtù che contribuiscono al pieno raggiungimento del bene e del vero. Nell’Etica Nicomachea di Aristotele, il Filosofo pone domande sulla felicità e sul suo raggiungimento. Perché la felicità e la piena realizzazione umana sono gli obiettivi di queste riflessioni. Duemilatrecento anni fa. E la ricerca di una vita felice, cioè in armonia con la propria natura e il proprio essere ha raggiunto il suo apice con la filosofia scolastica e il lavoro di Tommaso d’Aquino,
Aderendo ad un determinismo meccanicista, abbandonando la Metafisica e la speranza di avvicinarci alla verità, abbiamo abbandonato la possibilità di sperare nella felicità. La felicità è stata sostituita col benessere, di fatto intendendo per benessere l’attenuazione del dolore tramite iniezioni continue di momenti di piacere autoindotto. Il fine è diventato lo star-bene per lo star -bene: senza direzione, senza significato, senza un progetto, quindi aleatorio e momentaneo. Di conseguenza lo star bene porta alla depressione per la percezione della sua sua transitorietà, e la depressione rende ossessivo e nevrotico l’inseguimento dello star bene, comunque lo si ottenga.
È un perverso circolo vizioso che porta all’annichilimento del sé. Il benessere come valore assoluto non ha significato. O il benessere è frutto della coscienza dell’essere e dell’adeguamento della persona alle esigenze dell’essere, oppure è un concetto-trappola. La psicologia che propone il benessere, ma non si basa sull’essere (metafisica), rischia di trasformarsi in una bottega di anestetici e antidolorifici. Non fa sentire dolore, però la malattia avanza.
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