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Martin F. Echavarria
Professore di Psicologia presso l’Abat Oliba-CEU di Barcellona
Membro della Pontificia Accademia di San Tommaso
Presidente della SITA sezione di Barcellona

“[…] infatti tutta la Psicoterapia si fonda sull’Antropologia – senza escludere la Psicoanalisi: nessuno tranne che lo psicoanalista Paul Schilder ha riconosciuto che la psicoanalisi è una “visione della realtà”. La mia opinione personale è che tutta la Psicoterapia si basi su premesse antropologiche, a meno che lo psicoterapeuta non ne sia diventato consapevole; nel qual caso si basa su implicazioni antropologiche. Il che è ancora più grave […]” ¹.

Ciò che Frankl dice della psicoterapia vale anche per la psicologia in generale. Ma, spesso, quell’antropologia su cui si basano la psicologia e la psicoterapia è riduzionista e non rende giustizia alla profondità della persona. Lo ha sottolineato San Giovanni Paolo II in un discorso ai membri della Rota Romana, avvertendo i giudici di non lasciarsi influenzare da psicologie basate su di presupposti antropologici insufficienti: “Questo pericolo non è solo ipotetico, se consideriamo che la visione antropologica, da cui si muovono molte correnti nel campo della scienza psicologica nel mondo moderno è decisamente, nel complesso, inconciliabile con gli elementi essenziali dell’antropologia cristiana, perché si chiude ai valori e ai significati che trascendono il dato immanente e che consentono all’uomo di orientarsi verso l’amore di Dio e del prossimo come sua vocazione ultima.Questa chiusura è inconciliabile con la visione cristiana che considera l’uomo un essere «creato a immagine di Dio, capace di conoscere e di amare il proprio Creatore» (GS, N. 12) e allo stesso tempo diviso in sé stesso (cfr ibid., n. 10). Queste correnti psicologiche, invece, partono dall’idea pessimistica secondo cui l’uomo non potrebbe concepire aspirazioni diverse da quelle imposte dai propri impulsi o dai condizionamenti sociali; o, al contrario, l’idea esageratamente ottimistica secondo cui l’uomo avrebbe dentro di sé e potrebbe realizzare da solo la propria realizzazione”².

L’uomo si orienta verso Dio mediante la virtù della carità, e qualsiasi antropologia che rende impossibile la vocazione della persona umana all’amore di Dio e del prossimo è incompleta e carente. L’uomo ha, per dirla con Pascal, sia grandezza che miseria³. La grandezza dell’uomo consiste nel suo carattere a immagine di Dio. La sua miseria, nello status naturae lapsae, lo stato di natura decaduta, che lo divide interiormente. L’uomo è una persona, quindi, un essere dotato d’interiorità, intelligenza e libertà, fatto a immagine di Dio ed elevato dalla grazia alla filiazione divina. Ma è anche un essere diviso internamente, profondamente colpito dal mistero della caduta dalla sua condizione originaria. Ci sono due linee nelle antropologie secolariste: quella che ne sottolinea la grandiosità, sebbene disconnessa da Dio, e quella che ne enfatizza la miseria. Facilmente si possono individuare importanti autori e scuole di psicologia contemporanea in queste due linee, quella del pessimismo e quella dell’ottimismo antropologico. Chesterton ha detto che pessimismo e ottimismo sono eufemismi per riferirsi a due grandi peccati contro la virtù teologale della speranza: la disperazione e la presunzione⁴. Una visione antropologica integrale non deve trascurare né la grandezza né la miseria dell’uomo.

Non è né pessimista né ottimista, ma piena di speranza. Nella posizione pessimistica: “Secondo la quale l’uomo non potrebbe concepire altre aspirazioni rispetto che quelle imposte dai propri impulsi o dai condizionamenti sociali”, abbiamo chiaramente la psicoanalisi freudiana e coloro che interpretano la psicoanalisi in una linea deterministica, così come il culturalismo e altre forme di determinismo sociale. Nella posizione ottimistica, che sostiene: “L’idea esageratamente ottimista secondo cui l’uomo avrebbe in sé e potrebbe raggiungere da solo la sua propria realizzazione”, abbiamo gran parte degli psicologi umanisti e i cognitivo-comportamentali. La psicologia, intesa come scienza empirica, non può fornire un’immagine completa dell’essere umano. Quando prova a farlo in modo indipendente cade semplicemente nel riduzionismo. Pertanto è necessario ricorrere ad una conoscenza più profonda e sapienziale, che è quella della filosofia e della teologia.

Diversi autori nella storia della psicologia, come Allers, Lersch, Frankl, Arnold, Rychlak, o May, e molti altri⁵, hanno insistito sulla necessità che la psicologia si apra ad un fondamento filosofico. Riguardo alla teologia, è stato detto molto poco, anche se è altrettanto importante per una concezione integrale⁶. Per poter comprendere in che modo la conoscenza della psicologia empirica può aprirsi verso una ragione metafisica e teologica, è necessario avere una concezione integrata e organica del sapere. Secondo la Costituzione Apostolica Ex corde Ecclesiae⁷, il documento di San Giovanni Paolo II  che si riferisce alle università cattoliche, «in un’università cattolica la ricerca abbraccia necessariamente:

  • il raggiungimento di un’integrazione delle conoscenze;
  • il dialogo tra fede e ragione;
  • una preoccupazione etica,
  • una prospettiva teologica”⁷.

Riguardo al primo punto, San Giovanni Paolo II scriveva: “Guidati dagli apporti specifici della filosofia e della teologia, gli studi universitari si impegneranno costantemente per determinare il posto corrispondente e il significato di ciascuna delle varie discipline nel quadro di una visione della persona umana e del mondo illuminata dal Vangelo e, di conseguenza, dalla fede in Cristo-Logos, come centro della creazione e della storia”.

È una concezione gerarchica della conoscenza, in cui le conoscenze scientifiche sono sovrastate e illuminate dalla sapienza. Non si tratta di confusione tra gli oggetti di studio, né di estrapolare enunciati, ma di comprendere che tali verità parziali convergono verso la Verità prima. Qui la teologia gioca un ruolo essenziale, al punto che San Giovanni Paolo II afferma che ogni università cattolica dovrebbe avere una facoltà o, almeno, una cattedra di teologia. Ciò è particolarmente importante per la psicologia. La metodologia di ricerca utilizzata in psicologia può fornire solo una conoscenza esteriore e frammentaria dell’essere umano. In nessun modo può portare a conoscere l’uomo interiore nella sua profondità e completezza.

Normalità, salute e maturità

Quanto detto finora vale soprattutto per la conoscenza della pienezza umana, che in psicologia viene affrontata con i nomi di normalità, salute e maturità. Propongo, pertanto, di affrontare in questa sede un tema così centrale, specialmente per la pratica della psicologia, da una prospettiva antropologica integrale. Gordon Allport, il padre della psicologia della personalità, aveva già affermato che la prospettiva meramente empirica è insufficiente, con queste parole:

“[…] affinché si possa affermare che una persona è mentalmente sana, normale e matura, dobbiamo sapere cosa sono la salute, la normalità e la maturità. La psicologia da sola non può dircelo. Poiché il giudizio etico, in una certa misura, ne è coinvolto”⁸.

Salute, normalità e maturità si riferiscono a un qualche tipo di dover essere e, in ultima istanza all’etica, dice Allport. A loro volta si possono aggiungere i criteri etici che dipendono dalla concezione dell’essere umano che abbiamo, perché il dover essere si appoggia sull’essere. Esaminiamo allora questi tre concetti: salute, normalità e maturità – a partire dalla normalità. Le parole normale e anormale sono ampiamente usate nel campo della psicologia e della psichiatria, ma non è comune per noi interrogarci sul loro significato. Infatti, a volte vengono utilizzati quasi come sinonimi, come nel brano tratto da Allport, anche se, di per sé, possono significare concetti diversi. Kurt Schneider, un grande teorico della psichiatria, che ha anche conseguito un dottorato in filosofia con una tesi diretta da Max Scheler, è uno dei pochi ad aver affrontato la questione sistematicamente cercando di definire ciò che a quel tempo veniva chiamata la personalità psicopatica, che corrisponde, in linea generale, a ciò che oggi viene definito il disturbo di personalità. Dice Schneider che le personalità psicopatiche sono quelle che, a causa della loro anormalità, soffrono o fanno soffrire la società⁹. Schneider sostiene che, in questa definizione, il concetto chiave è l’anormalitá e pretende, pertanto, di definirlo in modo adeguato. Secondo Schneider, ci sono due modi di definire i concetti di normalità e anormalità: il criterio valutativo e il criterio statistico.

“Esistono due tipi di concetti di normalità, a seconda che si adotti la norma del termine medio o la norma del valore. Normale, nel senso della norma del termine medio, è proprio il termine medio. Normale, nel senso della norma di valore, è ciò che corrisponde all’ideale soggettivo personale: l’uomo normale è, per esempio, Goethe, per uno; per un altro, Bismarck; per un terzo San Francesco. La norma del termine medio è puramente quantitativa: è anormale tutto ciò che si discosta da essa, dall’ordinario e dal frequente. Nell’individuazione dell’eccezione, dello straordinario e del non comune, non è coinvolto alcun apprezzamento del valore. Nella norma di valore, è anormale tutto ciò che si oppone all’immagine ideale. Questa è determinata dalla gerarchia ideologica personale dei valori”¹⁰.

Il criterio valutativo sarebbe inaccettabile per la psichiatria. In effetti, essendo questa una scienza, dovrebbe rinunciare ad ogni valutazione e attenersi ai fatti. Per questo motivo Schneider sostiene un concetto statistico di normalità. Normale sarebbe ciò che corrisponde alla media statistica. Ecco come lo spiega Schneider: “D’ora in poi, e nell’attenzione al concetto di normalità media, definiamo le personalità anormali come segue: Le personalità anormali sono variazioni, deviazioni, da un campo medio, immaginato da noi, ma non esattamente determinabile, delle personalità. Deviazioni verso il più o il meno, verso l’alto o verso il basso. È indifferente se queste deviazioni dalla normalità media abbiano valori positivi o negativi nell’aspetto etico o sociale. Partendo da questa normalità media, il santo o il grande poeta sono altrettanto anormali quanto il criminale spietato; tutti e tre non rientrano nel termine medio delle personalità”¹¹.

Queste dichiarazioni di Schneider, per quanto scioccanti possano sembrare, potrebbero forse essere accettabili nella misura in cui cercano di mantenere la neutralità assiologica della scienza. Tuttavia, sorgono problemi da molti punti di vista. Il primo ha a che fare con la definizione di personalità psicopatica. Se questa è quella che, a causa della sua anomalia, soffre o provoca sofferenza, da ciò seguirebbe che tale sofferenza deriverebbe dalla sua anomalia statistica, il che è a dir poco curioso. Egli stesso riconosce, d’altro lato che, nonostante quanto detto, la sua stessa concezione implica una valutazione: quella che è meglio non soffrire o non far soffrire, che soffrire o far soffrire¹². Oltre a ciò, si potrebbe osservare che, pur essendo una scienza matematica é metodologicamente estranea ai valori, cioè al giudizio sul bene e sul male (“in mathematicis non est bonum”)¹³, questo risulta più problematico per una conoscenza pratica, o anche tecnica¹⁴. Sia in medicina che in psicologia clinica, come in altre scienze della salute, si tenta d’individuare ciò che viene considerato come un male e di sanarlo, cioè, condurre la persona in un altro stato che si considera migliore. Questo non può esser fatto senza un giudizio sulla bontà o sulla nocività all’interno di qualsiasi ambito si tratti. Se il santo o il grande poeta sono anormali, cosa occorre fare in pratica? Sottoporre il santo alla psicoterapia perché assomigli all’uomo medio delle grandi città? Dovremmo cercare, per esempio, che una Santa Teresa di Calcutta, il cui modo di essere è molto lontano da quello della media di qualsiasi popolazione, si compri un televisore al plasma e usi Netflix? Chiaramente c’è un problema, occorre andare oltre ciò che la formalizzazione statistica dei dati ci consente di sapere. Per questo motivo lo psichiatra e filosofo Rudolf Allers affermava quanto segue:

“Supponiamo che in un paese ci siano 999 uomini affetti da tubercolosi e uno solo che non è malato. Si potrebbe concludere che “l’uomo normale” è quello i cui polmoni sono divorati dalla malattia? Il normale non va confuso con la media”¹⁵.

Sebbene ogni persona possa avere un’opinione diversa sui valori (o meglio su ciò che è buono), c’è una realtà che può essere scoperta se usiamo rettamente la nostra ragione e se facciamo le scelte giuste in modo da essere disposti soggettivamente secondo la gerarchia oggettiva dei valori. Ci sarà necessariamente un dibattito su questi temi, ma il dibattito è proprio del carattere razionale dell’essere umano e, quindi, qualcosa di buono, non qualcosa da cui si dovrebbe fuggire.

Un’altra questione è determinare cosa è normale. Per un grande teorico dei disturbi della personalità come Millon, normale implica avere tratti adattivi¹⁶. Questa espressione, molto comune nella pratica clinica, è più problematica di quanto sembri. Suppone una tacita premessa antropologica, proveniente dal riduzionismo biologista, secondo la quale tutte le capacità di un vivente, anche dell’uomo, non avrebbero altro significato che l’adattamento all’ambiente. I limiti di questa prospettiva diventano evidenti quando la esponiamo ad esempi limite. Cosa era adattivo nella Germania del Terzo Reich? Adattarsi è sempre la cosa migliore per un essere umano?

Come insegnava Francisco Canals Vidal, in linea con Aristotele e con Tommaso d’Aquino, l’uomo non agisce solo sotto la spinta di un bisogno, ma anche motivato dalla pienezza¹⁷. Qualcosa di simile è stato sostenuto anche da Gordon Allport, che per questo motivo elimina l’adattamento, dalla definizione definitiva, del concetto di personalità¹⁸; affermazioni in questo senso le troviamo anche nell’eminente psicologo della personalità Joseph Nuttin¹⁹. Quando mettiamo in atto comportamenti mirati al raggiungimento del cibo o della protezione, ad esempio, agiamo sotto la spinta del bisogno. Ma quando comunichiamo una perfezione che già possediamo, agiamo da una pienezza. Un esempio di ciò, appropriato al nostro contesto, è l’atto di insegnare. Sebbene circostanziale, l’insegnare può essere collegabile con la ricerca di soddisfazione di un bisogno, in se stesso, l’atto di insegnare consiste non nell’adattarsi, né nell’equilibrarsi, né nel soddisfare altre necessità, ma nel comunicare la conoscenza che abbiamo, che è una perfezione. E questa perfezione è un grande bene, un bene comune, il bene comune di ogni comunità accademica. La vita accademica non si concentra sullo studente o sul docente, ma sulla verità che dà significato all’attività accademica di entrambi. Ecco perché, comunicandola, chi ce l’ha non la perde. E, quando uno la riceve, non toglie nulla di quello che l’altro riceve, a differenza di quanto avviene quando si distribuisce un bene materiale, che punta a soddisfare un bisogno, come una torta. Pertanto, in sé il numero dei soggetti che potrebbero partecipare a quel bene è infinito. Di conseguenza, anche se in determinate circostanze l’insegnamento è a pagamento, quello che viene dato non è strettamente uno stipendio, ma un onorario. Gli onorari sono una retribuzione simbolica per un servizio che, di per sé, è materialmente inestimabile. In altre parole, anche se a un certo livello il “normale” può avere a che fare con l’adattamento, la completa normalità ha a che fare con la pienezza, soprattutto quando questo concetto tende ad avvicinarsi a quello di maturità. Ovviamente il concetto di normalità è polisemico. Oltre alla normalità statistica e alla normalità della pienezza, abbiamo un’altra serie di normalità parziali: quella del corretto funzionamento degli organi e delle facoltà, anche se questi non sono portati al massimo della loro funzionalità possibile; o la normalità relativa all’età, poiché ciò che rientra nella norma in un’età può essere anormale in un’altra. Piangere per il dolore fisico della fame, quando arriva il momento di mangiare, è normale per il bambino, ma non per una persona di trent’anni. Ma anche in ciascuno di questi significati, si sta cercando di raggiungere un certo grado di perfezione.

Salute e felicità

Passiamo al concetto di salute. Questo concetto è fondamentale per la medicina e per le altre scienze della salute, ed è molto importante anche per la psicologia clinica. Per i classici, come San Tommaso, la salute è una disposizione dell’organismo – per gli antichi, degli umori – che lo rende atto a vivere e a eseguire operazioni vitali. Gli autori antichi non ignoravano l’esistenza di condizioni psicosociali che influenzano la salute, e riconoscevano che questa non dipendeva solo da fattori fisici, ma nonostante tutto, la consideravano essenzialmente come un equilibrio del corpo. Tra gli autori contemporanei nel campo della salute mentale, Schneider adotta un criterio simile²⁰. Alla salute si contrappone la malattia, quest’ultima concepita come una disposizione inadeguata dell’organismo, dovuta a cause prevalentemente organiche, ma talvolta anche psicosociali²¹. Era comune anche un’estensione analogica di questo concetto, e così si parlava di salute e di malattia psichica (animalis)²¹ o morale e spirituale. Estendendo i concetti di salute e malattia oltre la sfera fisica, questi autori non concepivano che salute e malattia si diffondono in modo univoco in tutte le dimensioni, ma piuttosto secondo un certo tipo di analogia, il cui modello originario era la malattia corporea. Sebbene questo modo di intendere le cose si mantenga anche oggi, ci sono degli autori che elevano il concetto di salute ad un livello diverso. Il famoso psicoanalista e pediatra Donald Winnicott, ad esempio, in un libro che porta un titolo suggestivo “La natura umana” dice che “sani” sono coloro che “sono più vicini a diventare ciò per cui sono venuti dotati al mondo”²³. Questa definizione cerca chiaramente di collegare il concetto di salute a quello di maturità o perfezione umana integrale. Qualcosa di simile accade con la definizione di salute nella costituzione dell’OMS. In primo luogo, penso sia importante sottolineare che non dovrebbe essere dato per scontato che questa sia la definizione di salute da considerare a priori la migliore. L’OMS è un’organizzazione politica, e la definizione di un’organizzazione politica, anche se si tratta di politica sanitaria, non dovrebbe necessariamente essere adottata da scienziati e specialisti. É compito del foro accademico affrontare questo tipo di definizioni. In ogni caso, questa organizzazione definisce la salute, nella sua costituzione del 1946, nel seguente modo: “La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non solo l’assenza di condizioni di salute o di malattia”²⁴. Questa definizione è solitamente considerata molto completa grazie al suo approccio olistico, poiché non si limita agli aspetti fisici, ma comprende anche gli aspetti psicosociali, e non è il semplice opposto del concetto di malattia, ma implica una pienezza.

È chiaro che una comprensione integrale della salute deve includere considerazioni psicologiche e sociali. Dobbiamo però distinguere: il concetto univoco di salute è solo relativo agli aspetti legati al benessere psicologico e sociale? Oppure, la salute si diffonde in modo analogo su queste tre forme di benessere? L’uomo è un’unità e tutto è correlato, ma ciò non significa che tutto sia lo stesso.

Sebbene il benessere in ciascuna di queste tre aree sia molto importante per il bene integrale dell’uomo, racchiuderle tutte e tre in un concetto univoco di salute ha i suoi pericoli. Prendiamo un caso evidente. Una persona giusta che vive in un regime tirannico si trova in una situazione che non è quella del benessere sociale. Ha un problema di salute? O meglio, una malattia? Dobbiamo avere sempre presente il pericolo di una persecuzione politica mascherata da politica sanitaria, avvenuta in molte circostanze storiche, come durante il periodo del terrore nella Rivoluzione Francese²⁵ e nel Regime Sovietico²⁶, per citarne alcune. Di solito si ritiene che ciò che si oppone esclusivamente alla salute sia la malattia. Tuttavia l’OMS definisce così la malattia: “Alterazione e deviazione dello stato fisiologico di una o più parti del corpo, dovuto a cause in generale conosciute, manifestata da sintomi e segni caratteristici e la cui evoluzione è più o meno prevedibile”²⁷. Qui, chiaramente, la malattia non include nella sua definizione gli aspetti psicologici e sociali. È un’alterazione dello stato fisiologico o di parti del corpo. Anche se questa malattia potrebbe avere determinanti psicosociali, questo aspetto non è incluso nella definizione. Sebbene la definizione dell’OMS affermi che per salute s’intende qualcosa che non è semplice assenza di malattia, possiamo chiederci se non sia logico che salute e malattia siano intesi come concetti opposti. Ciò che accade è che, con il nome di malattia, non ci si sta riferendo ad uno stato di equilibrio e ordine dello stato fisiologico o delle parti del corpo, che sarebbe esattamente l’opposto della malattia, ma uno stato di completa pienezza dell’essere umano. È molto significativo che la definizione di salute dell’OMS sia uguale in modo sorprendente ad un’altra definizione classica. Mi riferisco alla definizione di felicità o beatitudine (beatitudo, in latino) del filosofo Severino Boezio (V-VI secolo d.C.): “Lo stato perfetto per il possesso di tutti i beni”²⁸. Confrontiamo entrambe le definizioni. È chiaro che lo “stato perfetto” di Boezio è paragonabile allo “stato di completo benessere” della definizione dell’OMS. Si può dubitare, con ragione, che l’attuale nozione di benessere (wellbeing) sia del tutto identica a quella di perfezione della filosofia classica; ma, se il ben-essere è considerato come lo star bene, e questo in modo completo, è difficile non intenderlo come ciò che classicamente veniva chiamata perfezione. Questo stato implica, secondo l’OMS, il completo benessere fisico, mentale e sociale. A sua volta, il “possesso di tutti i beni” di cui parla Boezio, comprende quelli che San Tommaso chiama i tre beni dell’uomo: i beni esterni, i beni del corpo e i beni dell’anima²⁹. Questi tre beni possono, rispettivamente, riguardare il benessere sociale, fisico e mentale.

Da tutto ciò consegue che, quando l’OMS definisce la salute, al di là della parola, ciò che sta definendo è quello che è stato chiamato classicamente la felicità, vale a dire, la beatitudo dei latini e l’eudaimonia di Aristotele. In effetti, è molto suggestivo che, negli ultimi vent’anni, soprattutto nel campo di quella che oggi viene chiamata psicologia positiva (Positive Psychology), sia stata recuperata la parola e il concetto di eudaimonia per riferirsi allo stato di completo sviluppo mentale, associandolo anche a termini correlati come wellbeing, happiness o flourishing³⁰.

È evidente che, per il suo metodo e la sua portata, la scienza sperimentale non può sviluppare adeguatamente questi concetti, ma piuttosto affrontarli in modo esteriore e superficiale. Il contributo che questi approcci possono apportare dipende dai dati che vengono letti alla luce di una concezione più profonda, di tipo antropologico, sia dalla filosofia che dalla teologia.

Il concetto di maturità

Il terzo concetto che ci interessa analizzare è quello della maturità. Per quanto già detto, secondo alcune accezioni, tanto la normalità come la salute significano qualcosa per cui la parola maturità potrebbe essere più appropriata. Questa, a sua volta, si riferisce alla parola maturo. Ci sono due significati di questa parola nel dizionario della RAE che riteniamo interessanti per il nostro scopo: “Detto di una persona o di una cosa: che ha raggiunto uno stato di sviluppo adeguato alla sua realizzazione, uso o funzionamento”; “Detto di una persona: colui che ha la prudenza e il buon senso proprio della persona adulta”³¹. Analizziamo questi due significati. Quando parliamo di una persona, si dice che uno è maturo quando si è sviluppato fino a raggiungere la sua realizzazione. Questo concetto di realizzazione ci ricorda l’autorealizzazione della psicologia umanistica e anche quell’essere “più vicini a diventare ciò per cui sono venuti dotati al mondo” con cui Winnicott definiva la salute. Inoltre, la realizzazione delle proprie potenzialità, parlando in termini aristotelici. In effetti, ciò che chiamiamo in spagnolo autorrealización (autorealizzazione in italiano), in inglese viene definito self-actualization, attualizzazione di sé. Si riferisce ad uno stato  di attuazione, che si contrappone alla potenzialità. La domanda che resta da porsi è in cosa consiste questa realizzazione o attualizzazione di se stessi.

Il secondo significato è altrettanto interessante. Voglio richiamare l’attenzione, in primo luogo, sull’espressione persona adulta. Matura è una persona adulta. La parola adulto/a deriva dal latino adultus/a, che è il participio perfetto passivo del verbo adulesco o adolesco, che significa “crescere”. Adultus è, quindi, colui che è cresciuto. Diverso dall’adultus è l’adolescens. Adolescens è il participio presente dello stesso verbo, adolesco, e significa “colui che sta crescendo” (e non, come a volte si dice qualcuno che “soffre”). Adulto o maturo è, quindi, colui che è giunto alla fine del suo sviluppo. È quindi legato al concetto di perfezione. Infatti, secondo l’origine del termine, la parola perfectus è composta dalle parole per e facere e significa che qualcosa ha raggiunto la sua attuazione attraverso un movimento o un processo. Essere maturi o perfetti significa aver raggiunto la propria realizzazione attraverso la graduale accoglienza della propria perfezione, per mezzo dello sviluppo.

Quindi, secondo l’etimologia del termine, Dio non è perfetto, ma è, da tutta l’eternità, Atto puro, Perfezione senza limiti. L’uomo, invece, prima di diventare adulto è un adolescente, qualcuno che cresce. L’adolescenza non è quindi un’anomalia, ma uno stato di movimento, di crescita verso la maturità. Un adolescente di quarant’anni non è un adolescente, ma una persona mentalmente e moralmente atrofizzata. L’adulto è così il punto di riferimento necessario per l’adolescente, in quanto l’età adulta è il termine di questo movimento di crescita. Poiché nulla passa dalla potenza all’atto se non tramite qualcosa che è in atto³², la presenza formativa dell’adulto è fondamentale per l’adolescente e, in generale, per il minore in crescita. In secondo luogo, in questo significato della parola maturità appare l’idea che la persona matura ha “prudenza e buon senso”. Se comprendiamo queste parole nel loro senso classico, secondo il quale queste parole significano virtù, ci troviamo con una relazione tra il concetto di maturità e il concetto di virtù.

Maturità e virtù

Questa relazione tra maturità e virtù non è passata inosservata alla psicologia attuale. In realtà è proprio l’intuizione alla base della proposta di Martin Seligman di sviluppare una psicologia positiva. Ecco come lo spiega Seligman:

“Negli ultimi cinquant’anni la psicologia si è dedicata ad un unico tema, la malattia mentale, e i risultati sono stati abbastanza buoni […]. Ma questo progresso è stato ottenuto a caro prezzo. Sembra che il sollievo degli stati che rendono la vita orribile ha relegato in un secondo piano lo sviluppo degli stati che rendono la vita degna di essere vissuta. Tuttavia, le persone vogliono correggere semplicemente le loro debolezze. Vogliono che la vita abbia un significato, e non solo essere costretti a tirare avanti fino al giorno della morte. […] È giunto il momento di avere una scienza il cui obiettivo sia comprendere le emozioni positive, aumentare i punti di forza e le virtù e offrire linee guida per raggiungere quella che Aristotele chiamava la “vita buona”³³.

Seligman ha recuperato per la psicologia tanto il concetto aristotelico di eudaimonia come di virtù. La sua proposta è di indagare su questi temi con l’attuale metodologia della ricerca in campo psicologico. Anche questo significa recuperare un quadro antropologico, in cui occupa un posto importante il libero arbitrio, che per decenni è stato offuscato dallo sviluppo della psicologia dalla prospettiva della psicopatologia. La proposta di Seligman ha prodotto negli ultimi vent’anni una valanga di pubblicazioni su questa linea e rinnovato il dialogo tra psicologia ed etica delle virtù. Tuttavia, sono venute alla luce anche le debolezze di base del suo approccio iniziale. La prima di queste è il relativismo, sul quale è impossibile sviluppare un concetto di virtù. Di conseguenza, una mancanza di definizione circa il bene dell’uomo, che è nucleare per la definizione di questa “vita buona” di cui parlava Aristotele³⁴. Infine, una certa superficialità, che è una conseguenza inevitabile di un approccio su questi temi che utilizzi esclusivamente questa metodologia, la quale spesso conduce ad un ottimismo semplicistico.

Ma torniamo al concetto di virtù³⁵. La parola virtù (areté in greco) deriva dal termine latino virtus, la cui radice è vis, che significa “forza”. Le virtù sono concepite dai classici come punti di forza o eccellenze del carattere (ethos), che lo rendono ordinato all’operazione perfetta (ergon), ovvero alla realizzazione del massimo potenziale; una realizzazione che diventa parte del proprio modo di essere, della personalità e che, quindi, ha stabilità, perché è uno stato, non una mera situazione temporanea. Le virtù coprono tutti gli ambiti della vita umana, perché per ciascuna di esse esiste una virtù che la regola:

prudenza, il pensiero pratico;

giustizia, il rapporto di uguaglianza con gli altri;

fortezza, perseveranza nelle buone opere nonostante le paure e le difficoltà³⁶;

temperanza, la moderazione del desiderio.

Queste quattro virtù, chiamate cardinali, in realtà ne sintetizzano molte altre che hanno anche i loro ambiti specifici, come la mitezza, che modera la rabbia; l’umiltà, che regola l’amor proprio; la eutrapelía che modera il gioco e la fruizione del tempo libero; la magnanimità, che è una sorta di grandezza nelle aspirazioni morali; ecc. Tutte, però, dipendono radicalmente dall’amore. Se ci moderiamo, se combattiamo, se regoliamo i nostri affetti e i nostri comportamenti, è per qualcosa che vale la pena. È ciò che amiamo, quello per cui vale la pena. A ragione San Tommaso diceva che l’amore è la ragione per cui facciamo tutto ciò che facciamo³⁷.

Sant’Agostino riunisce tutte le virtù, nell’amore di carità³⁸. Per questo anche Tommaso d’Aquino, in quanto autore cristiano e discepolo di Sant’Agostino pone la carità come la più perfetta tra le virtù, ancor più della fede e della speranza, come già diceva San Paolo (1Cor, 13-13). Caritas è una parola che in latino è usata per designare un amore dal valore altissimo, che è soprattutto quello che si ha nei confronti degli amici. Nel cristianesimo viene utilizzata per designare la virtù mediante la quale si ama Dio con un amore di amicizia superlativo e il prossimo come se stessi. Non è questo il contesto per sviluppare sistematicamente il tema dell’amore di carità. Diciamo solo un paio di cose che ci permettono di carpire l’importanza dell’amore per la maturità personale. L’amore, come movimento affettivo, spiega sia l’ordine che il disordine della vita personale: non basta amare, si deve amare bene. Nessuno è maturo se, innanzitutto, non sa amare l’altro come se stesso, cioè, con amore di amicizia. Attraverso l’amicizia si ama l’altro, non per sé, ma perché sia se stesso. Il famoso filosofo tomista Josef Pieper diceva che l’amore è una sorta di affermazione affettiva dell’essere dell’altro, è dire in qualche modo all’altro: «È bello che tu esista»³⁹. Questo ci porta ad un altro aspetto della maturità, legato alla pienezza interiore e all’amore: la generatività.

Lo psicoanalista Erich Fromm si riferiva alla personalità matura con l’espressione “orientamento produttivo” della personalità⁴⁰ Parla così per le sue radici neomarxiste, che gli fanno vedere la realizzazione dell’essere umano, attraverso la categoria dell’essere produttivo. Secondo me è più appropriato parlare di fecondità, fertilità, generatività. Proprio come un organismo vivente è maturo nella misura in cui è capace di generare un altro essere vivente simile, così avviene nell’ordine della vita personale. Una personalità matura è caratterizzata per la comunicazione della vita, una vita che è radicata nella pienezza dell’interiorità. Una persona umana può generare biologicamente, ma è anche chiamata ad una pienezza che le permette di generare spiritualmente. Per questo San Tommaso dice che il fine del matrimonio non è solo la generazione della prole, ma anche la loro “conduzione e promozione allo stato perfetto dell’uomo in quanto uomo, questo è lo stato della virtù”⁴¹. Infine, per la stessa ragione, l’amore maturo implica la donazione di sé. Questo non è altro che una certa dimenticanza di sé per donarsi alla persona amata. Per questo, San Tommaso, seguendo lo Pseudo-Dionigi l’Areopagita, diceva che l’amore produce l’estasi, l’uscita da sé⁴². Frankl spiegava, influenzato da Adler, che molti disturbi nevrotici dipendevano dall’iper-riflessione, ossia, da un atteggiamento egocentrico che impedisce alla persona di trascendere se stessa⁴³. San Tommaso spiega che l’uscita da se stessi avviene in ogni vera amicizia, anche se in modo incompleto, perché nessun uomo si ordina ad un altro uomo secondo tutto ciò che ha in sé⁴⁴. L’amore di amicizia umano è regolato dall’amore di sé, che è come la sua misura. Soltanto verso Dio, che è la causa radicale e il fine ultimo, l’uomo è ordinato secondo tutto ciò che ha in se stesso. Questo è il nucleo dell’amore di carità, che comprende e ordina tutti gli amori e tutte le virtù, e così conduce verso la maturità oltre ciò che qualsiasi scienza umana può prevedere o calcolare: “ogni scienza trascende”, come dice San Giovanni della Croce.

Note

  • 1 V. E. Frankl (1999). La idea psicológica del hombre. Madrid: Rialp, 130.
  • 2 Juan Pablo II (1987). “La incapacidad psíquica y las declaraciones de nulidad matrimonial. Discurso al tribunal de la Rota Romana”. Acta Apostolicae Sedis, LXXIX, 1453-1459.
  • 3 Cfr. B. Pascal (1993). Pensamientos. Barcelona: España, 50: 121 (418-328): “È troppo pericoloso da mostrare all’uomo quanto è simile alle bestie, senza mostrargli la sua grandezza. Ed è anche troppo pericoloso fargli vedere la sua grandezza senza la sua miseria“; cfr. Francesco (2023). “Lettera Apostolica Sublimitas et miseria hominis”, nel quarto centenario della nascita di Blaise Pascal”. Santa Sede:
  • https://www.vatican.va/content/francesco/es/apost_letters/documents/20230619-sublimitas-et-miseria-hominis.html
  • 4 Cfr. C. K. Chesterton (2003). Autobiografía. Barcelona: Acantilado, 377-378.
  • 5 R. Allers (1950). Naturaleza y educación del carácter. Barcelona: Labor; Ph. Lersch (1956). Aufbau der Person. München: J.A. Barth; V. E. Frankl (1990). El hombre doliente. Fundamentos antropológicos de la psicoterapia. Barcelona: Herder; Arnold, M. B. (1977). Psychology and the Image of Man. Religious Education, 54, 30-36; Rychlak, J. F. (1977). The Psychology of Rigorous Humanism. New York: John Wiley & Sons; R. May (1985). La psicología y el dilema del hombre. Buenos Aires: Gedisa.
  • 6 Cfr. I. Andereggen e Z. Seligman (1997). La psicología ante la gracia. EDUCA: Buenos Aires; (Trad. It. La psicologia di fronte alla grazia, a cura di Domenico Monteforte Revisione a cura di Stefano Parenti)  P. C. Vitz, W. J. Nordling y C. S. Titus (2020). A Catholic Christian Meta-Model of the Person. Integration with Psychology and Mental Practice. Sterlin (VA): Divine Mercy University Press; J. D. A. Juanola (2021). “Psicología y espiritualidad: ¿aceptar o superar la condición humana?”. In M. Lafuente Gil, M. Álvarez Segura e M. F. Echavarría (eds.). Antropología y ciencias de la salud mental. Madrid: Dykinson, 269-281.
  • 7 Juan Pablo II (1990). “Constitución Apostólica Ex corde Ecclesiae, sulle università cattoliche”.
  • Santa Sede: https://www.vatican.va/content/john-paulii/es/apost_constitutions/documents/hf_jpii_apc_15081990_ex-corde-ecclesiae.html
  • 8 G. W. Allport (1966). La personalidad. Su configuración y su desarrollo. Barcelona: Herder, 329.
  • 9 K. Schneider (1962). Las personalidades psicopáticas. Barcelona: Editorial Científico-Médica, 26. Trad.it. “Le personalità psicopatiche” ed. Giovanni Fioriti
  • 10 Schneider. Las personalidades psicopáticas, 26.
  • 11 Schneider. Las personalidades psicopáticas, 26-27.
  • 12 Cfr. K. Schneider (1997). Psicopatología clínica. Madrid: Fundación Archivos de Neurobiología, 41-42: “Già il semplice fatto che la seconda parte della nostra definizione di psicopatia è stata creata secondo un punto di vista (sociologicamente) valutativo, che è molto relativo, ne vieta l’uso puramente psicologico”.
  • 13 Cfr. Tommaso D’Aquino Summa Theologiae, I, q. 5, a. 3, ad. 4.
  • 14 Cfr. Aristóteles (1994). Metafísica. Madrid: Gredos, 134 (l. III, c. 2, 996a 29ss): “[…] nelle cose immobili non sembra possibile che non esista un tale principio di Bene in sé. Ecco perché in matematica nulla è dimostrato ricorrendo a tale causa, né vi è alcuna dimostrazione “perché questo è meglio o peggio”, ma che nessuno si ricorda in assoluto di nessuna di queste cause, e proprio per questo alcuni sofisti – come Aristippo – le denigrano: e nelle altre arti e mestieri, come nell’edilizia e nella calzoleria, sempre si dice: “Perché questo è meglio o peggio”, ma la matematica non fa alcun ragionamento sul bene e sul male”.
  • 15 R. Allers (1999). “El amor y el instinto. Estudio psicológico”. In Andereggen e Seligman, p. 324. Trad. it. “La psicologia di fronte alla grazia” ed. Dionysius, Roma p. 331. Cfr. R. Allers, Reflexiones sobre la patología del conflicto, in Andereggen e Seligman, 292. Trad. It. “La psicologia di fronte alla grazia” Dionysius, Roma, p. 320: “Il medico, trattando un malato, non ha solo l’intenzione di liberarlo dalle sue sofferenze e di renderlo capace di guadagnare vita; vuole soprattutto restaurare il suo stato ‘normale’, perché sa che il ‘normale’ è proprio ciò che ‘deve’ essere. […] Il medico non può che accettare, sia inconsciamente sia anche contro la sua volontà, l’idea di un ordo al di là dei fatti, uno stato di cose che non esiste sempre ma che deve esistere e la cui sola realizzazione costituisce lo stato ‘normale’”.
  • 16 T. Millon y G. S. Everly (1994). La personalidad y sus trastornos. Barcelona: Martínez Roca, 20.
  • 17 Cfr. F. Canals Vidal (2016). “El logos, ¿indigencia o plenitud?”, en Obras completas. Barcelona: Editorial Balmes, 13-248.
  • 18 Cfr. C. S. Hall y G. Lindszey (1980). La teoría personalística. Allport. Buenos Aires: Paidós, 17.
  • 19 Cfr. J. Nuttin (1982). Teoría de la motivación humana. Barcelona: Paidós.
  • 20 Cfr. Schneider. Psicopatología clinica, 25-40; Trad.it. “Le personalità psicopatiche” ed. Giovanni Fioriti
  • 21 Cfr. M. F. Echavarría (2008). “Las enfermedades mentales según Tomás de Aquino (I). Sobre el concepto de enfermedad”. Studia Mediaevalia, 1(1), 91-116.
  • 22 Cfr. M. F. Echavarría (2006). “La enfermedad psíquica (aegritudo animalis) secondo San Tommaso”. Proceedings of the International Congress on Christian Humanism in the Third Millennium: The Perspective of Thomas Aquinas. Vatican City: Pontificia Academia Sancti Thomae Aquinatis, 441- 453.
  • 23 Cfr. D. Winnicott (1993). La naturaleza humana. Buenos Aires: Paidós, 40.
  • 24 Cfr. Organización Mundial de la Salud (1946). Constitución. OMS: https://www.who.int/es/about/governance/constitution
  • 25 Per esempio: cfr. J. Postel (2000). “Del acontecimiento histórico al nacimiento del asilo”. J. Postel y C. Quétel (Eds.). Nueva historia de la psiquiatría. México: FCE, 158-159.
  • 26 Cfr. C. Koupernik (2000). “Rusia”. Postel y Quétel. Nueva historia de la psiquiatría, 566-567.
  • 27 Questa definizione è comunemente citata, anche se non ho trovato il riferimento originale. Ad esempio, nel sito web del National Cancer Institute, degli Stati Uniti: Esta definición es citada ordinariamente, https://www.cancer.gov/publications/dictionaries/cancer-terms/def/disease
  • 28 Boecio (1985). La consolación de la filosofía. Madrid: Sarpe, 93 (III, 2, 3).
  • 29 Cfr. Summa Theologiae, II-II, q. 85, a. 3, ad 2.
  • 30 Cfr. F. Ruiz-Fuster, A. Bernal-Martínez de Soria y M. F. Echavarría (2024). “Emotional Regulation and Arnold’s Self-Ideal: A Way to Flourishing”. Frontiers in Psychology, 15, https://doi.org/10.3389/fpsyg.2024.1425850
  • 31 Real Academia Española (s.f.). Diccionario. https://dle.rae.es/maduro
  • 32 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 2, a. 3, co.
  • 33 M. E. P. Seligmann (2003). La auténtica felicidad. Córdoba: Vergara, 11.
  • 34 Cfr. B. Fowers (2012). “An Aristotelian framework for the human good”. Journal of Theoretical and Philosophical Psychology, 32(1), 10-23. https://doi.org/10.1037/a0025820
  • 35 Sul rapporto delle virtù nella psicologia positiva di Seligman e sul suo rapporto con la concezione di San Tommaso d’Aquino, cfr. CS Titus (2017) “Aquinas, Seligman, and Positive Psychology: A Christian Approach to the Use of the Virtues in Psychology”. En The Journal of Positive Psychology, 12(5), 447-458, DOI: 10.1080/17439760.2016.1228005. Sulla rilevanza della concezione cristiana delle virtù per la psicologia attuale, cfr. M. F. Echavarría e F. de los Bueis (eds.) (2023). Virtud, psicología y salud mental. El aporte de la concepción cristiana de las virtudes a la psicología. Madrid: Dykinson.
  • 36 Il concetto classico di fortezza può essere la chiave per interpretare la nozione psicologica di resilienza; cfr. CS Titus (2006). Resilience and the Virtute of Fortitude: Aquinas in Dialogue with thé Psychosocial Sciences. Washington DC: Catholic Université of America Press. Sul tema attuale della resilienza, cfr. M. Kazmierczak, M. Signes e C. Carreira (la una cura di) (2023). Aproximaciónes interdisciplinares a la resiliencia en la sociedad del siglo XXI. Madrid: Dykinson; L. Amado Luz (2018). Construir la resiliencia en la universidad. Madrid: CEU Ediciones
  • 37 Cfr. Summa Theologiae, I-II, q. 28, a. 6.
  • 38 Cfr. S. Agustín (1975). “Sobre las costumbres de la Iglesia católica” c.15. Obras de San Agustín. Madrid: La Editorial Católica, 254-255: «Poiché la virtù è la via che conduce alla vera felicità, la sua definizione non è altro che un perfetto amore a Dio. La sua quadruplice divisione non esprime altro che diversi affetti di uno stesso amore, ed è per questo che non esito a definire queste quattro virtù –spero che siano così radicate nei cuori come i loro nomi sulla bocca di tutti – come diverse funzioni dell’amore. La temperanza è l’amore che si dona totalmente all’oggetto amato; la fortezza è l’amore che tutto sopporta per l’oggetto dei suoi amori; la giustizia è amore che è unicamente schiavo del suo amato e che esercita, pertanto, una sovranità secondo ragione; La prudenza, infine, è l’amore che con sagacia e saggezza sceglie i mezzi di difesa contro ogni tipo di ostacolo”.
  • 39 J. Pieper (2017), Las virtudes fundamentales. Madrid: Rialp, 303: “Amare qualcosa o qualcuno significa considerare ‘buono’, chiamare ‘buono’ quel qualcosa o quel qualcuno. Guardarlo negli occhi e dire: “È bello che tu esista, è bello che tu sia al mondo”.
  • 40 Cfr. E. Fromm (1990), Man of Himself. An Inquiry into the Psychologue of Ethics. New York: Holt, 82-96.
  • 41 Cfr. Tommaso d’Aquino, Scriptum super Sententiis, IV, dist.26, q.1, a.1. Per lo sviluppo di una filosofia dell’educazione a partire da questa definizione, cfr. E. Martínez García (2002). Persona y educación en santo Tomás de Aquino. Madrid: Fundación Universitaria Española.
  • 42 Summa Theologiae, I-II, q. 28, a. 3.
  • 43 Cfr. Frankl. La idea psicológica del hombre, 30-33.
  • 44 Cfr. Super De divinis nominibus expositio, c. IV, l. 10. De esta obra, ver la excelente traducción de A. Mini, editada por E. Martínez y L. Prieto: S. Tomás de Aquino (2023). Comentario al libro Sobre los nombres divinos de Dionisio. Pamplona: EUNSA.

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